“Fischia il vento, infuria la bufera” cantavano quei rossi partigiani dopo l’armistizio del ’43. Nel 1980 un ben conscio Battiato completava con sano realismo: “E perché il sol dell’avvenire splenda ancora sulla terra / Facciamo un po’ di largo con un’altra guerra”. Tralasciando con deprecabile ed imputabile noncuranza i rispettivi contesti storici, la fredda conclusione del cantautore siciliano ci porta alla cruda realtà odierna, dove siamo ormai costretti a farci un po’ di largo “fra” una guerra e l’altra.

Per la serie “metafore meteorologiche”, viviamo in un mondo in cui i “venti di guerra” soffiano sempre più spesso. Guerre, più o meno lontane a seconda della scala mentale con cui si legge il mappamondo, e conflitti che si affacciano timidamente alle nostre coscienze attraverso i vari media. Ma per noi giovani, questi non sono soltanto eventi distanti: sono onde che plasmano le nostre preoccupazioni e ci costringono a confrontarci con la realtà crudele di un mondo dilaniato dalla violenza e dall’odio.

Una volta tanto ho deciso di non ergermi a portavoce di un’intera generazione (che poi in tante cose rappresento solo sulla carta: i miei affetti non esitano a definirmi “vecchio dentro”). Ho voluto raccogliere le voci di alcuni miei coetanei per captare come si relazionano alle “escalation belliche” degli ultimi tempi, se questi pluricitati “venti di guerra” smuovono almeno qualche capello. Ascoltando le testimonianze di giovani universitari come Federico, Alina, Alessandro, Niccolò e Giulia, emergono diverse sfaccettature di un problema complesso e dilaniante.

Federico ci porta nel cuore del Medio Oriente, un luogo in cui il conflitto è tessuto nell’intreccio intricato di geopolitica, interesse nazionale e tensioni secolari. Denuncia l’ipocrisia di chi si rifugia dietro al pretesto del “diritto a difendersi” per perseguire i propri interessi. “Sembra tutto un grande gioco – commenta sarcastico – in cui il pubblico rimane incollato allo schermo come nella penultima puntata della serie preferita. Penultima perché non siamo neanche lontanamente vicini alla fine di questa storia.”

Nel mezzo di questi giochi di violento potere, emergono voci come quella di Alina, rumena naturalizzata romana, che ci ricorda l’umanità sconvolta dalla tragedia della guerra. Affrontare il conflitto con il dialogo sarebbe più umano che a suon di missili. La sua è una testimonianza diretta, racconta con strazio il suo ricordo delle mamme ucraine che fuggono con i loro bambini attraverso la Romania, il dolore insensato di vite spezzate: “Straziano le lacrime delle mamme che hanno perso un figlio”.

Alessandro ci mette di fronte alla nostra calma complicità. “Mi addolora vedere come non ci sia un desiderio di interrompere questi conflitti” ammette e poi confessa: “Faccio fatica ad informarmi, mi sento disorientato”. È portavoce di una comune confusione di fronte alla voluta iper-complessità informativa. “Inondate la gente di informazione e penseranno di essere liberi. Non rifiutategliela. Offritene loro di più” scriveva il fondatore dei TED Talks R.S. Wurman. Calza a pennello.

E mentre Niccolò si sente impotente di fronte alle grandi decisioni, ci ricorda anche il pericolo di una rassegnazione fatalista. “Ho visto di recente il film La zona di interesse sulle famiglie dei gerarchi nazisti che abitavano vicino ai lager. Si vedono tante feste con lo sfondo dei camini fumanti… Purtroppo la mia sensazione è questa: faccio parte di quella fetta di società più codarda che si tappa le orecchie”.

Giulia ci invita a riflettere sul significato delle guerre nel mondo contemporaneo, sulle loro conseguenze devastanti e sulla nostra responsabilità di prendere posizione. “Le guerre intorno a noi ci riguardano più di quanto non pensiamo”, avverte. Il suo appello per gli innocenti, la sua ricerca di giustizia in un mondo ingiusto, ci chiama a essere testimoni attivi della pace, a non restare indifferenti di fronte alla sofferenza altrui.

In questo panorama di voci e testimonianze, emerge un filo comune: il desiderio di pace, la ricerca di una via alternativa alla violenza e alla distruzione. Siamo giovani, probabilmente privi del potere politico o economico per cambiare il corso della storia, ma non della capacità di sognare un mondo migliore, di agire per il bene. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza degli altri, né accettare passivamente un destino segnato dalla guerra. Le nostre voci cambieranno il mondo? Non lo so. La silente complicità può solo peggiorare le cose e trasformare in bufera incontenibile quel vento sul far della notte.

L’impegno per la pace parte da ogni essere umano. San Paolo VI nella Gaudium et Spes sembra concludere per me l’articolo: “Ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, aprendo gli occhi sul mondo intero e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere insieme per condurre l’umanità verso un migliore destino”.

Ora tocca a noi.