(Cristina Terribili)

Psicologi nelle scuole, scuole aperte anche a luglio e ad agosto, interventi sulla sindrome di Hikikomori, voucher a sostegno delle famiglie in difficoltà… Siamo sicuri che dobbiamo muovere tutte queste risorse a causa del Covid?

Che la pandemia abbia messo in risalto le fragilità del nostro sistema e delle nostre menti, in alcuni casi, è fuori discussione. Abbiamo visto come alcune scelte politiche, più o meno globali, abbiano determinato un sistema che abitualmente era di aiuto solo ad alcuni e che, in una condizione di emergenza, è collassato. Scelte operate sulla sanità e sulla scuola, ma anche riguardanti la promozione di piccoli centri, periferie, programmi di coesione sociale che erano sostenute con una parte irrisoria di fondi e, quella prevenzione tanto decantata perché di nota utilità, in fondo è stata spesso relegata a veloci programmi di screening a cui, peraltro, non sempre era facile accedere.

La dispersione scolastica, il dramma della povertà educativa, le forme di bullismo, la difficoltà di riportare all’interno delle aule scolastiche la condivisione di valori universali, tutto ciò ha fatto si che già da ieri si dovessero fare i conti con tanta frustrazione e disagio, agevolando una deriva verso emarginazione e criminalità. Per non parlare della fatica degli insegnanti e delle famiglie chiamate ad arginare i giovani in una fase tanto delicata del loro sviluppo.

Se oggi l’Italia si rende conto che alcune professionalità sono importanti e che è stato negato un sostegno utile a tutti, ben venga: accogliamo questo cambio di passo purché non sia limitato solo alla gestione della pandemia, ma sia l’inizio di un mutamento radicale e costante sostenuto con tutte le risorse possibili.

Stressati dall’incertezza di non poter accedere a diversi servizi, ci siamo trovati a fare i conti con informazioni non chiare sui siti, con chi rispondeva al telefono in modo laconico o scortese o impreparato, dopo un lungo e incongruo tempo di attesa. Il diritto alla professionalità, ad avere una risposta chiara e nel più breve tempo possibile, non dovrebbe essere una chimera né qualcosa di cui ci rendiamo conto solo quando tante certezze che avevamo vengono perse, quando ci si sente in pericolo o quando sono venuti meno quei “contatti personali” che permettevano di trovare percorsi privilegiati.

Da questa pandemia dobbiamo uscire migliori, più forti e più consapevoli attraverso una piccola rivoluzione di competenze, aggiornamenti, capacità trasversali che dovrebbero essere il minimo appannaggio di ogni lavoratore. Dovremmo riuscire ad abbattere quella mediocrità che è comoda e non ci lascia usare energie per migliorarci e chiedere di avere di meglio.

Potremmo cominciare anche da soli, riflettendo se quello che stiamo facendo nel lavoro, ma anche nella nostra quotidianità, è quanto di meglio abbiamo da offrire. Non di più, ma di meglio: perché, come diceva il vecchio saggio, per fare una cosa fatta bene o per fare una cosa fatta male ci si impiega lo stesso tempo.