(Fabrizio Dassano)

Il 31 dicembre del 2000 il quotidiano “La Stampa” dava notizia della morte a Torino della madre del noto imprenditore ingegner Carlo e del fratello senatore Franco Debenedetti. Aveva 97 anni d’età Pierina Fumel Debenedetti. Era nata a Torino il 7 febbraio 1903, da una famiglia ebraica di aristocratiche origini francesi, originaria della città di Fumel, nel nord-est del dipartimento Lot-et-Garonne, rifugiatasi dopo il 1789 ad Ivrea, per sfuggire alla ghigliottina.

In Piemonte trovarono una nuova patria, che servirono per due generazioni in armi. Il nonno di Pierina era Pietro Fumel, tenente colonnello dell’esercito sabaudo; suo figlio Sciamyl fu anche lui ufficiale ma morì prematuramente cadendo da cavallo nelle manovre militari di Spilinbergo, quando Pierina aveva sei anni. A lei e a suo fratello Giorgio provvide la giovane madre, Emilia Mazza, erede di una famiglia di magistrati. Pierina si diplomò ragioniera e nel 1921 entrò nella “Compagnia italiana tubi metallici flessibili”, azienda fondata da Rodolfo Debenedetti. I due divennero inseparabili e il 28 dicembre del 1931 si sposarono. Affrontarono il fascismo, le persecuzioni antiebraiche e la guerra che li costrinsero a fuggire in Svizzera, con i figli Franco e Carlo. Quando nel 1945 riuscirono a rimpatriare, ricominciarono da zero.

Pietro Fumel nacque a Ivrea il 1° gennaio 1821. Il 13 marzo i patrioti Costituzionalisti all’alba svegliarono il padre e si fecero consegnare dalla madre le stoffe di colore indispensabile per fare le bandiere tricolori che portarono in corteo liberando i prigionieri politici rinchiusi nel Castello e proclamando la Costituzione in Municipio.

Pietro frequentò la scuola cittadina e di lui troviamo traccia nei registri dell’Archivio storico del Liceo “Carlo Botta”. Negli Stati del Collegio di Ivrea dal 1835-’36 al 1847-’48 si legge che frequentò la classe IV nell’anno scolastico 1835-’36 uscendo con un “bene” all’esame finale. Per l’anno scolastico successivo, invece, non vi è esito d’esame e nelle note compare: “Lascia la scuola sul fine di Giugno”. Lavorando in negozio con i genitori, entrò anche nella Guardia Nazionale della città e prese a studiare le materie militari mentre prestava il servizio di turno. La Guardia Nazionale era il corpo composto di cittadini della nazione atti alle armi, reclutato per mantenere l’ordine pubblico e difendere le pubbliche libertà.

Si distinse nella campagna della I Guerra d’Indipendenza nel 1848-1849 col grado di tenente d’artiglieria e fu presto nominato capitano e come tale lo ritroviamo nella campagna del 1859, quando gli Austriaci si avvicinarono al Canavese con le avanguardie nel settore Tronzano – Santhià – Salussola – Mongrando – Biella. In quel mentre Pietro scomparve per diversi giorni: era la sua prima missione segreta. Travestito da carbonaio si trasferì presso quelli veri dei boschi della Serra d’Ivrea come infiltrato per osservare i movimenti austriaci. Con segnali a fuoco notturni, ottenne l’invio di un rinforzo di un reggimento di Cacciatori delle Alpi e un battaglione di Bersaglieri.

Il 9 maggio gli Austriaci puntarono in direzione di Ivrea ma la strada fu loro tagliata dal “Nizza” e dal “Savoia” cavalleria. Il 10 maggio il “Savoia” si mosse verso Tronzano e il nemico abbandonò la posizione. Pietro dopo aver tentato inutilmente di entrare a servizio di Napoleone III incontrato sul campo di battaglia di Magenta, fu nominato comandante del battaglione della Guardia Nazionale mobile di Ivrea con il grado di maggiore. Fu a Bologna per organizzare sia la popolazione che si ribellava allo Stato Pontificio che il plebiscito che avrebbe annesso l’Emilia-Romagna al Regno di Sardegna. Ritornò ad Ivrea col suo battaglione dove fu ricevuto con grandi dimostrazioni ed onoranze. Questo fu solo il primo periodo della sua carriera.

Già prima della nascita del Regno d’Italia, l’arrivo di Garibaldi a Napoli provocò insurrezioni che interessarono l’ex Regno Borbo-nico delle Due Sicilie. Il brigantaggio secondo gli storici, fu la prima guerra civile dell’Italia contemporanea e fu combattuto con metodi brutali che scatenarono polemiche da parte di parlamentari liberali e politici nazionali e stranieri come lo scozzese McGuire, il francese Gemeau e lo spagnolo Nocedal.

I briganti erano principalmente persone di umile estrazione sociale, ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie ed ex appartenenti all’Esercito meridionale che affiancò Giuseppe Garibaldi e i Mille, forza armata composta da volontari italiani e stranieri che raggiunse i 50.000 uomini e fu sciolto prima della proclamazione del Regno d’Italia.
Vi erano anche banditi comuni e briganti già attivi sotto il precedente governo. La rivolta fu sostenuta dal governo borbonico in esilio, dal clero e da movimenti esteri come i carlisti spagnoli. Numerosi furono i briganti del periodo che passarono alla storia. Carmine “Donatello” Crocco, fu uno dei più famosi.

La repressione cruenta, condotta col pugno di ferro da militari come Enrico Cialdini, Alfonso La Marmora, Pietro Fumel, Raffaele Cadorna e Ferdinando Pinelli, destò molte polemiche. Alla sconfitta del brigantaggio contribuì pesantemente il cambiamento di politica dello stato Pontificio: dal 1864 cessò l’appoggio ai briganti.

Dopo un tentativo spagnolo con il generale José Borjes per ristabilire i Borboni al sud, Pietro Fumel fu inviato in Calabria nel Cosentino, con il grado di colonnello della Guardia Nazionale con pieni poteri: le bande assaltavano interi paesi e uccidevano i notabili, o se prendevano prigionieri dei soldati regi, li torturavano e uccidevano brutalmente. La sua repressione fu spietata, ricorse alla tortura e al terrore, senza distinzioni tra briganti e presunti tali. Decimò le bande di Palma, Schipani, Ferrigno, Morrone, Franzese, Rosacozza, Molinari, Bellusci e Pinnolo. Le esecuzioni comandate da lui avvenivano in pubblica piazza e lungo le strade. Le vittime venivano decapitate e le loro teste venivano impalate a monito di chi aderiva o appoggiava le bande brigantesche. Altri cadaveri venivano gettati nei fiumi.

A Fagnano Castello fece fucilare cento contadini sospetti. A Cirò il 12 febbraio del 1862, Fumel scrisse un proclama in cui si leggeva: “…prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata” e anche: “le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati”.

L’eco di questo bando arrivò anche alla Camera dei Lord di Londra, dove lord Alexander Baillie-Cochrane protestò che “un proclama più infame non aveva mai disonorato i giorni peggiori del regno del terrore in Francia”. L’onorevole Giuseppe Ricciardi lo attaccò duramente alla Camera e fu lasciato solo anche da Nino Bixio, così come molti altri che presero le distanze da lui. Paradossalmente fu acclamato dai notabili del Sud ricevendo la cittadinanza onoraria da più comuni calabresi: Cosenza, Bisignano, Roseto Capo Spulico, Amendolara e San Marco Argentano tra il ‘62 e il ‘63. Venne rimosso dalla provincia di Cosenza per aver incriminato il barone Campagna di San Marco Argentano con l’accusa di favoreggiamento ai briganti. Bloccato appena in tempo mentre lo stava facendo fucilare, fu sollevato dall’incarico e richiamato dal governo.

Si ritirò a Ivrea come un eroe e dove ricoprì il personaggio del generale dello Storico Carnevale della città nelle edizioni del 1864 e 1865.

Lasciata la Guardia Nazionale, il re Vittorio Emanuele II gli fece ottenere l’impiego di magazziniere di generi di privativa (sale e tabacchi), prima a Livorno e poi a Milano. Rimandato in Calabria nell’agosto del 1866 come maggior generale con Decreto del 25 ottobre 1866, fece base a Rogliano ma con i poteri limitati dai prefetti, presto si dimise e tornò a Milano.

Affetto da spasimi nervosi si sottopose a cura idroterapica ad Andorno Micca presso lo Stabili-mento Idroterapico del Professor Vinaj. Torturato dai suoi fantasmi, la mattina dell’11 agosto 1886 dopo dieci mesi di “crudelissima malattia” come scrissero i giornali, assistito dal figlio Shamyl tenente nell’esercito e dagli altri congiunti, spirava il maggiore generale Pietro Fumel presso la Fabbrica e deposito dei tabacchi di Milano.