(Susanna Porrino)

Ho già scritto di “Gone Girl”, romanzo di Gillian Flynn e film candidato agli Oscar, ma oggi vorrei concentrarmi su un nuovo aspetto. Uno dei brani più intensi del romanzo, trasposto nel film in forma di monologo, è una riflessione della protagonista sulla figura della “cool girl”: il prototipo di donna al tempo stesso forte e delicata, competitiva e premurosa, sportiva e alla mano ed estremamente seducente.

Un prototipo costruito sulle esigenze e i desideri di un pubblico esclusivamente maschile, secondo l’analisi di Amy, che individua nella donna moderna l’esigenza di distorcere e mettere a tacere buona parte delle proprie tendenze e inclinazioni per conformarsi a tale modello e guadagnarsi una qualche forma di apprezzamento da uomini ormai non più in grado di accettare nulla di diverso. Il monologo è divenuto rapidamente nucleo di una serie di discussioni e visioni tra loro opposte, alternativamente lodato da donne che vi hanno riconosciuto un’analisi precisa della loro condizione e criticato da chi vi ha identificato una forma di femminismo radicale ormai superato.

Il brano contiene delle verità sulla realtà femminile che non possono essere negate; se la pressione sociale è una questione da sempre intrinsecamente presente nella natura umana e nel suo bisogno di dimensioni relazionali, occorre però riconoscere che l’impalcatura nettamente sessista su cui era costruita la società del passato ha spinto molto più le donne verso un adattamento agli stili di vita e alle esigenze maschili rispetto a quanto non sia avvenuto in senso opposto. Se si è rivelata particolarmente accesa la lotta per il diritto delle donne di scucirsi di dosso tutti quegli aspetti storicamente associati alla natura femminile, lo stesso non si può dire della controparte maschile, che pure comincia ad avanzare – ma in modo molto meno acceso – alcune richieste sulla mitigazione di un ideale di forza e resistenza eccessivo.

Tuttavia, pur incentrandosi completamente sulla condizione femminile, il brano tocca in realtà gli estremi di una insicurezza sociale di fondo che oggi, pur attraversando le dinamiche e le distinzioni presenti nella nostra cultura, ne oltrepassa ampiamente i confini. Amy, come ogni altro personaggio nel romanzo, incarna la drammaticità e l’insoddisfazione di una ricerca di accettazione sempre in bilico tra fragilità e equilibri precari, dettati non tanto dal suo essere donna, quanto dal suo sentirsi un prodotto in una società in cui persino le relazioni sono state assogettate alle logiche consumistiche di rapidità, inconsistenza e fragilità.

Le dinamiche di cui il monologo parla, per quanto esistenti, sono solo una delle strade attraverso cui viene incanalata la tensione di chi è costretto a vivere senza alcuna stabilità, in una realtà liquida in cui le scelte sono sempre temporanee e i vari mercati incoraggiano un senso di perenne insoddisfazione che alimenta standard sempre più elevati.

Amy sente su di sé l’urgenza di soddisfare una serie di canoni estetici, psicologici e comportamentali che la definiscano come l’opzione più desiderabile e per il maggior periodo di tempo possibile fra le centinaia di opzioni disponibili e nella frenesia di un mondo in cui tutto cambia e si muove con estrema facilità. In un meccanismo che con ogni probabilità ha un analogo maschile coniugato diversamente, si sente costretta a recitare il ruolo della donna perfetta venduto dai media e dalla letteratura contemporanea, perché educata ad un’idea di relazione con chi la circonda non basata sulla accoglienza, durevolezza e costanza, ma su una soddisfazione temporanea continuamente minacciata dalle spigolosità dell’esistenza.

Certamente un romanzo è un prodotto letterario che generalizza problematiche poi coniugate in modi e gradi molto diversi a seconda degli individui; tuttavia, è un buono spunto che invita a riflettere sul modo in cui ogni forma di rivendicazione nata nel passato – dalla lotta per la parità tra i sessi, a quella per la libertà di pensiero ed espressione – stiano sempre più venendo assorbite da un grido collettivo per la restituzione di una dignità e di un valore alla figura dell’individuo, soffocata da ogni parte da una serie di pressioni che lo rendono irriconoscibile persino a se stesso.