Sdraiato su un lettino del pronto soccorso con una saturazione di ossigeno nel sangue da far schifo, la febbre alta e qualche altro acciacco, ti chiedi che ne sarà di te tra cinque minuti, mezz’ora, domani. Speri di esserci arrivato in tempo, in quel santuario dell’urgenza, perché, dicono, anche poche ore fanno la differenza.

Sia benedetto chi ha insistito per un ricovero immediato, nel cuore della notte, senza attendere la luce del nuovo giorno che comunque non avrebbe portato né il sole, né favorito una diversa soluzione attesa. La famiglia che si stringe attorno al “suo” malato fa la differenza e lo salva; letteralmente lo salva, per quelle iniziative cocciute che solo in certi momenti ti vengono in testa e senza la paura di disturbare amici e conoscenti, professionisti che nei momenti più difficili marcano la loro presenza senza se e senza ma.

Benedetta la famiglia, gli amici professionisti e benedetti coloro per i quali il lavoro è missione, e ti tirano fuori prendendoti per le orecchie se necessario. Ma in quel momento, su quel lettino, ci sei solo tu, che fai i conti con te stesso e con il tuo Dio. Sei spoglio, sei inerme, sei indifeso e per forza di cose sei pure pronto a tutto. Pronto a tutto non per perdere, ma per vincere, per sfangarla ‘sta polmonite da Covid, per stritolarla, per buttarla nella fossa profonda da cui mai più risorga, per far del male a te e agli altri.

Quando ne esci sei diverso, inevitabilmente diverso, nel rapporto con la quotidianità che fino ad allora ha avuto un significato e oggi ne ha un altro, dettato dall’importanza differente delle cose, delle persone, dei fatti, della tua piccola o grande fede… e in sostanza di tutto quanto ti circonda, messo profondamente in discussione dalla vicinanza che hai avuto col punto zero della tua vita. Da quel punto zero nasce la consapevolezza di cosa vuoi essere dopo, di come vuoi essere dopo, cosa lasciare e cosa proteggere, a cosa rinunciare e su che cosa puntare, a livello personale e comunitario-ecclesiale, almeno laddove esiste questa sensibilità di fare un cammino insieme.

La solitudine nella brandina del Pronto soccorso deve poter trasformarsi in una nuova capacità di relazione con gli altri. Relazione, conforto, solidarietà, carità, sostegno, accompagnamento, vicinanza morale e spirituale e tanto altro, che nell’euforia stordita degli anni passati avevamo piano piano dimenticato.

Da questo contesto drammatico di pandemia, in cui il cerchio si stringe sempre di più, coinvolgendo tante persone che conosciamo (molto diverso fu in primavera) e che oggi vengono colpite, la solitudine dell’uomo della porta accanto deve essere sconfitta, come sconfitta deve essere quella bruttissima e non azzeccata espressione del “distanziamento sociale”, che invece è solo distanziamento personale per evitare il contagio.

Se c’è da risorgere da quel letto in cui mille pensieri ti assalgono e ti stritolano, che essa sia la resurrezione delle relazioni umane di cui dovremo prenderci grande cura a livello personale, e ancor più a livello civile, e grandemente a livello ecclesiale.