(Susanna Porrino)

Mi sono imbattuta qualche giorno fa in un intervento sul web che si scagliava contro la tendenza ossessiva al perfezionismo del nostro tempo, e contro il senso di frustrazione che si genera quando il nostro lavoro non ci sembra all’altezza di ciò che ci saremmo aspettati. L’autore riprendeva un concetto dell’imprenditrice e filantropa statunitense Sheryl Snadberg – “Done is better than perfect” (fatto è meglio che perfetto) – per incoraggiare chi si trovasse in questo tipo di situazioni a non lasciarsi paralizzare dal bisogno di raggiungere il massimo risultato e a intraprendere invece ogni lavoro con una buona dose di leggerezza.

Fa in realtà sorridere accusare l’uomo moderno di eccessivo perfezionismo, se confrontiamo i nostri sforzi con quelli di grandi personaggi del passato, che hanno speso un’intera vita di studio e lavoro e di autoanalisi severissima per lasciarci in eredità opere che oggi ci raccontano la natura dell’uomo.

La cura e la bellezza molto difficilmente possono essere raggiunte se non con un lavoro lungo e silenzioso, e anzi oggi in pochi sono probabilmente in grado di gestire un tale investimento in termini di tempo e fatica, di fronte ad un panorama così ampio e in cui è relativamente semplice trovare un proprio spazio di espressione.

Eppure l’aspirazione alla perfezione è divenuta anch’essa un problema, perché limitante. Il tempo utilizzato per inseguire una perfezione irraggiungibile ostacola la rapidità di una produzione in serie che tutto sommato è sufficiente a soddisfare ed esigenze del mercato. Spesso a mancarci sono proprio i modelli stessi a cui ispirarsi, che non consociamo o che consociamo poco. Al contrario, le forme di successo che ci vengono continuamente proposte non sfruttano tanto la costanza e l’autocritica, quanto la cura dell’immagine e la capacità di promuovere sé stessi.

Così, continuamente distratti dai ritmi frenetici della quotidianità, scoraggiati dall’idea che ci sia sempre meno spazio per il riconoscimento del proprio sforzo (che nell’attesa della compiutezza invecchia in una dimensione in cui tutto ringiovanisce e si crea ogni giorno) molto difficilmente siamo disposti a passare anni o decenni a rivedere e ripensare uno stesso lavoro, mettendo continuamente in discussione le nostre conoscenze e limiti.

Perché dunque si parla con questa insistenza del perfezionismo moderno? Perché si pone l’accento su questo continuo senso di frustrazione e inadeguatezza di cui la nostra società ha impregnato l’uomo? Probabilmente perché tendiamo a confondere quella la ricerca del bello e dell’eccellenza con quello un bisogno molto più intimo e indipendente dell’animo umano.

Non è la perfezione che ricerchiamo in maniera così meticolosa e attenta, ma lo sguardo d’approvazione degli altri; non è il pensiero dell’irraggiungibilità dei nostri obiettivi a paralizzarci e impedirci di rischiare tempo e fatica in qualcosa di troppo alto per noi, ma la sensazione che la nostra voce si confonda tra le mille voci e i mille prodotti già presenti.

Trasformando l’uomo e le sue qualità in un tassello essenziale per il funzionamento dell’intero sistema economico mondiale, e spostando la selezione sulla persona, abbiamo rovesciato il concetto di perfezione dalle cose all’uomo, riversandovi così una serie di aspettative e richieste insostenibili che l’individuo non può realizzare. La soddisfazione e la precisione che cerchiamo di ottenere attraverso i nostri risultati è quindi il riflesso, e al tempo stesso una parte integrale, di quelle esigenze di esemplarità e impeccabilità a cui sentiamo di dover aderire noi stessi.

La strada per uscire dai blocchi che ciò ci provoca non è tanto rassegnarci all’imperfezione dei nostri lavori (per quanto, comunque, essa sia una componente inevitabile dell’attività umana) e costringerci ad eseguirli tentando di eliminare aspettative eccessive, ma piuttosto chiederci quanto siamo disposti a prendere atto della nostra imperfezione nel processo di lavorazione.

Curare, anche in maniera insistente, ciò che percepiamo come importante non è una fonte di problemi di per sé; ma curare, attraverso di esso e in modo eccessivo, le aspettative che sentiamo dall’esterno su di noi può portare a quel soffocante senso di inadeguatezza da cui inevitabilmente veniamo paralizzati.