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L’omicidio di Martina Carbonaro, 14enne di Afragola, è stato un pugno allo stomaco per tutti. Non solo perché è un ennesimo femminicidio, non solo perché a commetterlo è stato il fidanzato reo confesso, non solo per la brutalità con cui è stato perpetrato e per l’occultamento del cadavere…
L’omicidio di Martina ci ha sconcertato perché lei aveva 14 anni ed il suo assassino 19. Ci ha sconvolto perché le loro famiglie hanno accettato una relazione amorosa “da adulti” iniziata tra una ragazzina che all’epoca aveva 12 anni e un ragazzo che ne aveva 17. Ci ha disorientato perché ci ha messo di fronte all’interrogativo di cosa è giusto fare o non fare a quell’età. Ci ha turbato perché ci ha messo di fronte all’evidenza che se autorizziamo tutto, se permettiamo di superare quei limiti relativi al rispetto dello sviluppo di ogni essere umano, emotivo, psicologico e sessuale – o che ci offrono anche solo le leggi, quelle scritte dagli uomini, quelle che ci indicano che una persona di 12 anni non è capace di intendere e di volere – beh, forse quel diciannovenne si può sentire autorizzato e legittimato, di fronte ad un rifiuto, di fare quello che ha fatto.
L’omicidio di Martina ci atterrisce perché ci rendiamo conto che abbiamo perso ancora una volta un’occasione per evitare che un giovane uomo, di fronte ad un rifiuto, commetta un atto violento, arrivando ad uccidere e ad infierire su un corpo perché non riesce a sostenere una frustrazione. Quella frustrazione che il mondo degli adulti non si vuole assumere, che fa sentire genitori o educatori malvoluti se rimandano al rispetto di poche ed essenziali regole, quella frustrazione che fa emergere conflitti. Se nessuno è più capace di attendere, e se l’attesa rende aggressivi perché non padroni di quello che il proprio egocentrismo comanda, forse la lotta contro ogni femminicidio e a favore dell’impegno educativo, è già persa in partenza.
Dire un no, far accettare un tempo “giusto”, far comprendere che ci sono delle pulsioni che hanno bisogno di tempi, luoghi e maturità per essere vissute, è una responsabilità che dobbiamo ritrovare. È normale invaghirsi, innamorarsi, ma è essenziale saper attendere l’altro, rispettare i suoi tempi, la sua crescita. Non servono proibizionismi, divieti apodittici e acritici, se la morte di Martina deve avere un significato, che lo abbia nell’opportunità che ogni adulto dotato di senso di responsabilità possa dialogare, interrogarsi ed interrogare, chiarirsi e chiarire sul valore della vita e sul rispetto di questa; sul senso dell’attesa e sull’adeguatezza dei tempi e dei modi.