(Alessandro Crotta)

IVREA – Noi di Sant’Antonio, ragazzi del Trenta e dintorni, trovammo ancor prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, all’Istituto Salesiano “Cardinal Cagliero” di via San Giovanni Bosco, un’ospitalità di amicale impronta.

Non vi era ancora il sorriso del colonnello Bernacca a indirizzarne gli umori, e dunque le stagioni invernali, per non sbagliare, quasi sempre seguivano lo stesso andamento di quelle degli anni precedenti. Quindi neve.

Noi, ragazzi di Sant’Antonio, e qualche altro ragazzo ormai più adulto, e di esperienza sciistica più evoluta, dallo spiazzo della monumentale cappella del Cristo Re inforcavamo gli sci, e superando le ripide insidie della Sassonia (la primissima parte del percorso), proseguivamo, evitando la curva a sinistra che ci avrebbe condotto alla portineria dell’Istituto, sin quasi a Macallè; i meno bravi – e tra questi il sottoscritto – poco dopo la partenza svoltavano a sinistra nel pianetto dedicato alla Madonna.

Tra noi qualche volta ad esibirsi vi era anche Zeno, stilisticamente il più bravo di tutti i ragazzi: beh, con il percorso pressoché ghiacciato lo spettacolo era assicurato.
Senza alcuna mira polemica, ricordo che tutta la collina alle spalle del corpo principale dell’Istituto era accudito in modo impeccabile: il che offriva agli abusivi come noi, oppure a chi occasionalmente frequentava quell’altura, magari con un breviario tra le mani, un po’ di paradiso, bellezza e serenità in terra.

Bellezza e serenità che mi hanno indotto, anni dopo, a proporre una corsa podistica tra i giovani di stanza nell’Istituto, tre giri da percorrere in senso orario dedicandoli rispettivamente al Padre, al Figlio e l’ultimo allo Spirito Santo: all’epoca, di fronte a questo suggerimento, don Marchisio sorrise.

Era con la festività del Santo Natale, e con quell’altra dedicata a don Bosco a fine gennaio, che l’accoglienza dell’Istituto esprimeva al massimo quei valori di grande simpatia e partecipazione: né mancavano mai, in tali giorni, rappresentazioni teatrali ideate e interpretate dai “salesianini” lì residenti. Le rappresentazioni teatrali di grande richiamo – spesso farse – avevano luogo nel gran salone a pian terreno.

Al tempo i giovani residenti nell’Istituto erano particolarmente numerosi; che facessero lì, noi ragazzi di Sant’Antonio non ce lo siamo mai chiesto… tuttavia avevamo avuto modo di riscontrare che la struttura aveva una propria banda musicale di ottimo livello.

La nostra presenza nel-l’Istituto era dovuta – in parte almeno – all’istituzione della prima scuola elementare del borgo Sant’Antonio, addossata alla parete esterna di ponente di una stalla (ora parte del-l’Ostello salesiano): una scuola che presentava le prime tre classi elementari e che, essendo quanto mai innovativa sui temi della socialità, fin dalla sua istituzione non prevedeva differenzazioni di genere. La prima maestra del piccolo plesso educativo del borgo fu la valdostana signorina Nougy.

Per il carattere di amicizia maturato tra noi ragazzi di Sant’Antonio e il giovane don Marchisio, che era un po’ il nostro coordinatore, un giorno – a proposito di rappresentazioni teatrali – questi decise di condurci al “Salesianato” di Bollengo, dove si sarebbe rappresentato “Crispino e la comare”.

Insomma, quel don Marchisio e il laico Saragogna avevano per anni rappresentato, per noi ragazzi di San Antonio, i personaggi di riferimento del nostro amicale percorso: e non solo nella pallavolo, nel cui frammisto del gioco vi era anche il nostro caro don Giuseppe. Anni dopo proprio lui divenne, dell’Istituto del borgo Sant’Antonio, il rettore.

Per me è stato un fulgido esempio giovanile di “Salesiana eccellenza”. La cui impronta ho ritrovato trent’anni dopo all’estero, in Sudafrica, in un salesiano di San Benigno di grande professionalità tecnica, oltre che di grande umanità.