(Susanna Porrino)

Ciò che sta avvenendo sul confine bielorusso tra la Polonia e la Lituania porta le tracce di una violenza che ricorda spaventosamente un passato di sofferenza e brutalità. Le tensioni che stanno scaldando gli animi di più di una nazione europea sembrano rimandare ad alcune ferventi pagine dei manuali di storia degli ultimi secoli, ma la noncuranza che li avvolge ha probabilmente il segno più moderno di una realtà in cui il flusso di informazioni e immagini è divenuto così violento da renderci sordi ad ogni forma di dolore.

La sensibilità nei confronti dei migranti è stata uno degli atteggiamenti più radicalmente contrastati negli ultimi decenni; certamente, ne abbiamo avuto una prova nel momento in cui lo spostamento e l’accoglienza di altri esseri umani – un meccanismo che nella storia dell’uomo ha un passato plurimillenario – sono diventate una questione di “destra” o “sinistra”, e non invece il centro di una discussione collettiva che, tenendo conto di questioni politiche ed economiche, si interfacci con valori e principi comuni indipendenti dalle fazioni politiche di provenienza.

Nessuno mette in dubbio le difficoltà portate dall’incontro con il “diverso” in generale, e da quelle legate alla migrazione in particolare, ma in troppi casi all’analisi lucida e oggettiva della situazione, orientata alla ricerca di un compromesso ragionevole che ponga in primo luogo la dignità dell’uomo, si è sostituita un’irrazionale campagna politica costruita principalmente giocando sulle emozioni.

Sentimenti come la paura e il risentimento sono tra i più semplici da alimentare, e hanno la grandissima capacità di riportare lo sguardo dell’uomo esclusivamente su sé stesso; annullano, o quantomeno depersonalizzano, l’identità e il cerchio di diritti che appartengono ad altri individui, e facilitano l’accumularsi di reclami e proteste legati a situazioni che di fatto minano molto poco ed in maniera molto labile la vita di chi se ne lamenta, ma che appaiono come minacce insormontabili.

Quello che sta avvenendo sul confine bielorusso, come ha scritto Anna Iasmi Vallianatou sul The Guardian, è “ciò che avviene quando gli uomini vengono trattati come armi”: i meccanismi che hanno operato in questi mesi hanno reso ogni individuo coinvolto parte di una problematica che non ha nulla a che vedere con la propria situazione, e che è invece parte di in un quadro politico decisamente più frastagliato.

Ciò che forse manca all’Europa e alla società occidentale in generale, pur vantando tutta una serie di indizi che indicano una sensibilità indubbiamente lodevole, è la prontezza nel definire “persone” tutte quelle entità che non possono essere considerate mere pedine di uno scenario politico.

L’indifferenza che avvolge questi eventi è rivelatoria, se la si confronta con la facilità moderna di accedere a mezzi per esprimersi a proposito delle più svariate cause e con una cultura che dovrebbe trovare il suo centro in valori profondamente legati alla dignità umana. È indubbio che unitamente all’ingresso dei migranti in un Paese straniero si sviluppino tutta una serie di problematiche di natura economica, politica e sociale che sono rilevanti e non semplicisticamente risolvibili in termini umanistico-filosofici; ma non possiamo non domandarci su quali valori intendiamo costruire la nostra società, e chiederci se ciò che stiamo permettendo possa esserne considerato uno specchio fedele.

La questione è: abbiamo costruito una società in grado di porre al centro l’uomo e i suoi diritti, o abbiamo semplicemente esteso i confini di un potere e delle restrizioni conosciuti in passato?