(Fabrizio Dassano)

Sabato 6 giugno scorso sono andato in Liguria. Nulla di che, ma lì per lì mi è sembrato di fare una roba fuori dal normale…

Fatto sta che, partititi da Ivrea, in due ore esatte eravamo a Finale Ligure. Autostrada deserta e tempo incerto, guida tranquilla a godersi i panorami di questo grosso Piemonte e poi all’attacco dell’Appennino ligure e, quando meno te lo aspetti, eccoti di lato i due cartelli blu di confine tra le regioni.

Ci è sembrato di aver appena fatto qualcosa di straordinaria trasgressione: oltrepassare un confine vietato fino a qualche giorno prima, senza alcun valido motivo! Quindi la lunga discesa tra le colline verdissime, poi finalmente laggiù sarà il mare.

Aspettiamo di vederlo dal parabrezza con una nuova attesa che ci fa venire in mente il chansonnier piemontese Paolo Conte:

“Con quella faccia un po’ così
Quell’espressione un po’ così
che abbiamo noi prima d’andare a Genova
E ogni volta ci chiediamo
Se quel posto dove andiamo
Non c’inghiotte, e non torniamo più
Eppur parenti siamo in po’
Di quella gente che c’è lì
Che come noi è forse un po’ selvatica
ma la paura che ci fa quel mare scuro
e che si muove anche di notte
non sta fermo mai…”.

In effetti tutto è uguale e tutto è diverso. Lasciata l’autostrada ci infiliamo nel serpente d’asfalto che taglia gli orti circondanti i vari paesini… tutti deserti. Non c’è quasi anima viva (sarà che sono le 8 di mattina!).

La dura realtà della via Aurelia conferma i sospetti. Non c’è nessuno o quasi neppure lì. Nemmeno due ore dopo! Si passeggia tra le mura della città vecchia di Finalborgo, qualche locale è aperto e serve ai tavolini a distanza, qualche timido turista entra dalla Porta Reale e la vista è sovrastata dal forte di San Giovanni e dal Castel Gavone poco distante.

Raggiungiamo altri amici che ci aspettano a Varigotti, dove quasi tutte le attività sono ancora chiuse, come pure le case di villeggiatura. Sul lungomare si contano sulla punta delle dita di una mano gli stabilimenti balneari aperti (ma comunque anch’essi deserti).

Ci arrampichiamo alla torre saracena su Punta Crena e una volta alla sommità dello sperone entriamo incontrando altri quattro camminatori. Ritorniamo e dopo pranzo, complice il sole, si va in spiaggia libera. È facile mantenere le distanze con gli altri gruppetti, viste le poche persone. Ci addormentiamo quasi tutti al rumore delle onde.

L’indomani mattina il tempo inclemente, che non leva fascino al mare, ci consente solo al pomeriggio di camminare sui sentieri che portano verso l’altopiano delle Manie. Andiamo a trovare un ragazzo che ha in gestione con i genitori un agriturismo in un luogo spettacolare, tra gli olivi, le galline, le capre, i cani e un’asina.

Costruisce modellini di chiese romaniche e ci spiega che furono i benedettini a portare l’olivo da quelle parti. Gli mancano le scolaresche e allora ci informa e ci intrattiene tra storia e natura di quella Liguria di montagna vista mare.

È ora di rientrare a Ivrea. Ci rimettiamo sull’autostrada, deserta come all’andata, e arriviamo dopo due ore e un quarto: ci siamo dovuti fermare sotto un viadotto dell’autostrada nei pressi di Torino per un diluvio e una grandinata molto forte.

Dopo la tempesta, il cielo ci offre lo spettacolo delle masse di nuvole sconvolte come in un olio dell’ottocento romantico. Il sole rivela un immenso arcobaleno completo e noi ci passiamo nel bel mezzo.

“Con quella faccia un po’ così
Quell’espressione un po’ così
Che abbiamo noi
Che abbiamo visto Genova”