(Fabrizio Dassano)

Lo storico militare Ian Vernon Hogg (1926 – 2002) è stato un autore britannico di libri su armi da fuoco, artiglieria, munizioni e fortificazioni, nonché di biografie di diversi famosi ufficiali generali. Con 150 opere a stampa ha rappresentato e rappresenta ancora oggi un caposaldo dello studio della materia. Fornito di grande preparazione dovuta ai suoi 27 anni passati non in qualche prestigiosa università inglese, ma nella Royal Artillery del British Army e una campagna di guerra in Corea, si occupò anche del castello di Ivrea nella sua fondamentale History of fortification del 1982 con la traduzione e prefazione di Flavio Conti, già presidente dell’Istituto Italiano dei Castelli, un’organizzazione culturale senza scopo di lucro, nata nel 1964 su iniziativa di Pietro Gazzola ed eretta in Ente Morale, riconosciuto dal Ministero dei Beni Culturali, nel 1991.

Parlando dell’Italia nord-occidentale, spiegava che “le dinastie piemontesi, Savoia, Monferrato, Saluzzo, non furono in questo campo molto attive, anche se eressero alcuni esempi di primo piano, come i castelli di Fossano o di Ivrea, o come quello di Casale”.

Costruito tra il 1358 e il 1395 si erge maestoso sulla città come una potente bastiglia urbana e infatti la sua costruzione coincise con precisi aspetti politici: la dedizione di Ivrea ai Savoia fin dal 1313 era stata data a Amedeo V e al nipote Filippo principe d’Acaia dalla potente famiglia eporediese dei Soleri.

Giovanni II di Monferrato, nipote del famoso Guglielmo VII detto Spadalunga la riprese per appena due anni, ma la sentenza arbitrale di Giovanni Visconti arcivescovo e signore di Milano, la riassegnò al solo conte Verde, Amedeo VI Giacomo d’Acaia, figlio di Filippo, non volendo restare fuori dalla partita eporediese e pretendedone la metà, la occupò militarmente nel 1356. Ma per pochi mesi perché Amedeo VI la riebbe in toto.

Onde evitare nuovi problemi e per segnalare la propria presenza e potenza, il Conte Verde fece erigere la propria fortezza urbana sul monticello più elevato della città, demolendo il palazzo dei Soleri, travolti nel 1356 dall’accusa di tradimento del Cancelliere Giorgio e cacciati dalla città. Nato architettonicamente già “vecchio” per via dello sviluppo rapidissimo delle armi da fuoco pesanti, resterà una corte temporanea di casa Savoia, un grande deposito di armi e munizioni nel XVII secolo e poi un carcere.

Anche nella strategia difensiva della città da attacchi esterni, l’ubicazione del castello non era molto sensata, lontano dal nodo cruciale del Ponte Vecchio, vero punto strategico sia per aggirare la città che per interrompere le comunicazioni con la Valle d’Aosta.

Questa situazione lo portò paradossalmente a subire pochissime modifiche rispetto l’originale, a parte la torre esplosa per il fulmine caduto sul deposito di armi e munizioni alle 17 del 17 giugno 1676. Già nel 1889 l’Amministrazione delle carceri dello Stato aveva fatto progettare grandi modifiche del castello, ma l’Ufficio per la conservazione dei monumenti del Piemonte e della Liguria diretto da Alfredo d’Andrade si oppose mediando un progetto che non intaccasse le strutture medioevali.

Lo sbilanciamento difensivo del castello venne dimostrato dagli ingegneri militari nei secoli successivi che eressero prima la Castiglia, a difesa del ponte e poi la Cittadella sovrastante il Borghetto: solo così i tiri delle artiglierie avrebbero potuto spazzare il Ponte Vecchio.

Vecchio punto strategico restavano i ruderi del castello di San Maurizio: nell’assedio del 1641 una grossa colubrina chiamata il Marzocco venne piazzata tra i ruderi del Castellazzo, menando gran strage dei Francesi che assaltavano in forze da Porta Torino. Come tutte le costruzioni ad uso bellico precedenti e successive, era caratterizzato da due cisterne e un pozzo. La cisterna grande, circolare è veramente imponente: ha una luce di 7 metri e le pareti raggiungono lo spessore di un metro e a causa dei detriti sul fondo non si riesce a stabilire la profondità con precisione, anche se si può approssimare a circa sei metri. Poco distante il pozzo vero e proprio, che ha una luce di 2 metri e le parete cilindrica è spessa 1,25.

Questo pozzo serviva per attingere l’acqua raccolta e decantata nella cisterna a fianco e filtrata con la sabbia del fondo e poi incanalata al pozzo attraverso un cuniculo sotterraneo. Quest’ultimo oggi è probabilmente interrato.

I tipi di pozzi e cisterne, secondo la storiografia tedesca si distinguono in Tankzisterne e Filterzisterne. Il primo tipo, come quello eporediese è rappresentato dai serbatoi sotterranei entro i quali affluiva l’acqua piovana e adeguatamente filtrata, attinta mediante pozzi. Casi esemplari ne sono la singolare cisterna a due navate dell’abbazia di Vézelay nel dipartimento di Yonne, in Francia e la grande cisterna ad aula unica della basilica di S. Giovanni a Castelseprio in provincia di Varese. Il secondo tipo invece prevedeva uno scavo in genere tronco conico rovesciato, impermeabilizzato con argilla e al centro veniva eretta la canna del pozzo per attingere l’acqua filtrata, come i pozzi di Venezia.

Obbiettivo strategico nell’assedio della città e non solo del castello, lo si evince ancora nell’assedio franco-spagnolo di Ivrea nel 1704, quando il governatore, il barone Perrone di San Martino scriveva al Duca il 24 giugno 1704: “se mai accadesse in occasione d’attacco che una bomba venisse a guastar la cisterna , con quello et altre provisioni necessarie il presidio non reggerebbe oltre”.
Nel 1807 l’architetto Zani del Frà aveva disegnato una pianta generale di Ivrea per il suo abbellimento e quindi del Castello di Ivrea, pubblicata dal Carandini nella sua Vecchia Ivrea che riporta esattamente il pozzo e la sua cisterna: “il Castello era ancora tutto cinto da fossati anche sui lati est e sud, esistevano ancora le costruzioni dell’antiporta (rivellino) che il cortile era diviso in due parti eguali con un muro procedente da nord a sud, sul cui asse si aprivano due cisterne, una prima piccola, verso nord e una seconda grandissima più a sud. (…) Un altro pozzo si trova a terreno nella vecchia cucina del carcere, che nel 1921 mi si disse stava per diventare la nuova lavanderia, cucina attigua all’antico parlatorio in uso quando il Castello serviva ancora da casa penale”.

Rare le cisterne d’assedio conosciute in Canavese, per esempio al castello di Mazzè ne esiste ancora oggi una profonda una ventina di metri a forma di gigantesca bottiglia. Anche un altro canavesano, Francesco Ruffini si occupò del Castello di Ivrea per un suo restauro ma la Prima guerra mondiale destò altrove l’attenzione dell’allora ministro della pubblica istruzione. Nello stesso periodo d’Andrade diffidava da una rapida demolizione dell’edificio d’antiporta, perché sicuramente quello che sembrava allora un moderno edificio nascondeva il trecentesco rivellino.

Nel 1656 in una pubblicazione riservata al duca, intitolata “Avvertimenti sopra le fortezze di sua reale altezza” il capitano Carlo Morello, primo ingegnere e luogotenente generale dell’artiglieria, esaminando tutte le fortificazioni del ducato, scriveva di Ivrea: “Ancorché in passato si sia fatto poco conto delle fortificazioni della Città di Ivrea ad ogni modo essendovi state aggiunte alcune pezze come la Cittadella verso il Borghetto, qualche altra piccola pezza in lungo la Dora al bastione di Sant’Ambrogio e avendo coperto in parte la porta d’Aosta e accresciuto qualche fortificazione al Castiglio ancorché al presente resti ancora da perfettionare come pur tutte le altre pezze suddette, io stimo però che questa Piazza si possa ridurre delle migliori che siano di qua da Monti nello stato di S.R.A. sì che io essorto di compire tutta la suddetta fortificazione conforme si è detto. (…) Inoltre io credo che tutti debbano essere informati che la suddetta città sia per prestare un soccorso al Biellese, non essendovi altro ponte sulla Dora di questo, come anche la città medesima serve di antemurale alla valle d’Aosta e a tutto il Canavese, si che io la stimo delle considerabili Piazze contenute nel presente libro”.