Gesù come Elia ed Eliseo è mandato non per i soli Giudei.

(Maria Beatrice Vallero)

Ciò che più mi colpisce e mi provoca di questo brano del Vangelo è l’incapacità che i compaesani di Gesù hanno nel mettersi in discussione. Inizialmente sembra esserci un’apertura, un entusiasmo forte e desideroso di accogliere Gesù come il Messia. Poi, però, c’è qualcosa che blocca il “salto”, e che impedisce a quegli uomini di aprirsi completamente al mistero: la paura. “Non è il figlio del carpentiere?” Come è possibile che sia il Messia?

L’annuncio di Gesù è destabilizzante, perché chiede di essere accolto nella sua novità. Ma l’accoglienza esige l’ascolto, e l’ascolto richiede un piccolo “morire” a noi stessi. Il fondamento di ogni confronto, di ogni dialogo vero, sta nell’accogliere l’altro in tutto quello che potrebbe dirci e rivelarci. È uno “spaccarsi” dentro per permettere all’altro di entrare. Potrebbe essere capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi a discutere con un’altra persona su una questione non condivisa. E potrebbe essere capitato che, anziché ascoltare veramente l’altro, qualcuno si sia trovato a pensare alla risposta prima di aver davvero compreso. In questi casi si crea nel profondo dall’animo un meccanismo di difesa, per paura che l’altro – con le sue diverse opinioni – possa in qualche modo cambiarci. Ma questo non è ascolto, né dialogo. L’ascolto è amore ma, come si diceva sopra, “l’amore è un taglio sul vivo: è dare la vita” (Don D. Machetta).

Gesù non si stupisce. Sa perfettamente quanto sia difficile per ciascuno di noi aprire il cuore alla novità. Conosce la paura della sofferenza che può derivare dal perdere un po’ di noi stessi per dare spazio agli altri, ossia per amare gli altri. Il Vangelo di oggi sembra già rimandare a quel finale che, di lì a poco tempo, si concretizzerà davvero: Gesù morirà. Amerà a tal punto da dare veramente la Vita, affinché noi possiamo vivere, affinché noi possiamo ricevere il coraggio di Amare. Perché chi ama sicuramente soffre ma, alla fine, risorgerà.

(Lc 4,21-30) In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.