(Susanna Porrino)

Già si è scritto molto, anche su questo giornale, circa la serie TV che nel giro di poche settimane ha conquistato gli schermi di un pubblico ormai intercontinentale: è “Squid Game”, per la quale diversi genitori hanno lanciato una petizione chiedendone la completa cancellazione dalla piattaforma Netflix. È una reazione che dice molto dell’incapacità moderna di negarsi in autonomia almeno alcuni dei prodotti che la società ci offre.

Pare paradossale dover spiegare agli adulti che, in questo caso, il problema non è tanto il contenuto, ma semmai chi ha permesso a dei bambini di accedervi, dimenticando che essi distinguono fantasia e realtà attraverso un filtro molto più flebile e permeabile rispetto a quello che si acquisisce crescendo. Essi tendono per natura ad assorbire come modelli le immagini che vengono loro presentate, e, in particolare, tutto ciò che riguarda la violenza si imprime nelle loro menti come un marchio indelebile. Lo dimostra la psicologia, che individua nelle violenze dell’infanzia i traumi dell’età adulta; lo dimostrano magistralmente alcune figure letterarie, come quella di Pim (protagonista del “Sentiero dei Nidi di ragno” di Italo Calvino), un bambino nato e cresciuto nella guerra e che della guerra ha inglobato tutta la violenza e la spregiudicatezza.

Il cervello dei bambini, a dispetto di una tradizione letteraria che ne esalta l’ingenuità e l’innocenza, comprende e giustifica l’aggressività probabilmente molto meglio di quello plasmato e modellato degli adulti; se come civiltà abbiamo tendenzialmente imparato a controllare la componente più brutale da cui l’essere umano è caratterizzato (o quantomeno a sublimarla attraverso altri mezzi), gli anni dell’infanzia rivelano invece una modalità molto poco raffinata nel relazionarsi con chi ci circonda, e che non si preclude il ricorso ad un’istintualità incontrollata.

In dibattiti di questo genere si esige dai bambini una maturità che appartiene agli adulti, e una capacità di distinguere tra virtuale e reale che è sempre più difficile da stabilire per i nati delle ultime generazioni. Ciò che le antiche generazioni hanno imparato a conoscere più tardi nella vita, come forme alternative della realtà, è oggi per molti bambini parte integrante di quell’esperienza: è quel mondo in cui hanno vissuto che essi hanno inglobato nella propria memoria come aspetto inscindibile dal reale.

Chiedere ad un bambino nato nell’ultimo decennio di distinguere fra una conoscenza basata sull’esperienza diretta e una sull’esperienza mediata dagli schermi significa negare buona parte di quello che è stato il loro contatto con il mondo. I bambini moderni sembrano “spenti”, perché crescendo sono stati esposti quasi esclusivamente a stimoli di natura artificiale; il loro cervello ha dovuto imparare a reagire “a metà”, scindendo la prontezza fisica da quella mentale, abituandosi a rispondere in maniera pigra e fiacca alle situazioni presentate attraverso uno schermo e che suscitano nel bambino un profondo conflitto tra una mente continuamente attiva e un corpo (teoricamente) non coinvolto.

In questo contesto, proteggere i bambini da determinati contenuti ed immagini significa scegliere in quali direzioni farli crescere. Rivendicare il dovere delle istituzioni di controllare i valori e i contenuti collettivamente veicolati può avere un senso, ma di fatto esprime un rifiuto nei confronti della necessità di genitori ed educatori di porsi alla guida di una generazione che tra pochi decenni governerà il mondo.

I bambini hanno bisogno di genitori in grado di fare delle scelte, perché attraverso queste scelte impareranno a sviluppare la propria morale e personalità; barattare il proprio ruolo col bisogno di omologazione significa crescere ragazzi non in grado di scegliere per sé né di godere né di sottrarsi a situazioni acclamate dalla massa ma contrarie al proprio giudizio, negando loro la possibilità di sviluppare un pensiero critico ed autonomo in grado di selezionare esperienze e contenuti da fruire.