(Mario Berardi)

Il Presidente della Repubblica ha commissariato la classe politica, incapace di dare un governo al Paese: la maggioranza giallo-rossa divisa tra Renzi e l’alleanza M5S – Pd – Leu, Salvini e la Meloni (non Berlusconi) fermi sul voto subito; con l’incarico a Mario Draghi, autorevole ex presidente della BCE, il Quirinale ha seguito la via dei suoi predecessori: Oscar Scalfaro negli anni novanta scelse i vertici della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, nel 2011 Giorgio Napolitano ricorse al super-tecnico europeo Mario Monti.

Sergio Mattarella, nell’accorato appello al Paese, ha chiesto un governo di alto profilo, spiegando che oggi non è possibile andare al voto perché occorre affrontare con urgenza la sfida sanitaria (con il piano vaccinazioni) e la crisi economico-sociale, preparando entro aprile il Recovery-plan (sono in ballo i 209 miliardi dell’Unione Europea); inoltre a marzo scade, senza altri provvedimenti, il blocco dei licenziamenti, in una realtà sociale che nell’anno della pandemia ha già perso 444 mila posti di lavoro.

Il compito di Mario Draghi non appare facile in un Parlamento molto frammentato: hanno subito detto sì il Pd, i centristi, Italia viva, mentre i Pentastellati, molto lacerati, sembrano orientati sull’astensione; nel centro-destra Salvini, con un’intervista al “Corriere della Sera”, non ha chiuso la porta (anche per non rompere con i leghisti favorevoli, come Giorgetti e Zaia), ma ha insistito per un voto a giugno, superata l’emergenza del Recovery-fund; Berlusconi si conferma aperto al nuovo governo, la Meloni contraria.

Una bocciatura di super-Mario sarebbe una sconfitta clamorosa per l’Italia sul piano internazionale, ed è quindi possibile che emerga in Parlamento il senso di responsabilità invocato da Mattarella; peraltro alcuni media, con fretta eccessiva, già profetizzano per l’ex Presidente della BCE un duplice incarico: ora a Palazzo Chigi, tra un anno al Quirinale al posto di Mattarella. È meglio muoversi con molta prudenza, tenendo conto delle urgenze immediate di milioni di persone che attendono i vaccini, il rinnovo della cassa-integrazione, i ristori alle partite-Iva, una politica di rilancio del tessuto produttivo e della coesione sociale.

Con la caduta del Conte-ter giunge politicamente a conclusione la legislatura avviata nel 2018 con la vittoria delle componenti populiste e anti-europeiste: Grillini e Leghisti; il mutamento di strategia dei Pentastellati, dopo la rottura con Salvini, ha consentito l’elezione della nuova Presidente dell’UE, Ursula von der Leyen, ma l’uscita di Renzi dal Pd ha indebolito il fronte riformista, rendendo precaria l’alleanza giallo-rossa; sull’altro versante è stato permanente il dissidio sull’Europa tra Forza Italia e l’asse Salvini-Meloni, rendendo incerto il profilo dell’alleanza di destra-centro; in ogni caso va riconosciuto al premier Conte il merito di aver ottenuto i 209 miliardi dall’UE, di cui 80 a fondo perduto.

Ora Giuseppe Conte deve scegliere il suo destino politico: i sondaggi gli attribuiscono un risultato elettorale superiore al 10% con una sua lista personale, ma a scapito essenzialmente dei suoi alleati M5S e Pd; più facile sarebbe assumere la guida dei Grillini, evitandone la frantumazione e mantenendo il contatto con il Pd, su una linea nettamente europeista; questa scelta aiuterebbe anche il cammino di Mario Draghi, impedendo al M5S di scegliere la via, suicida, dell’opposizione a oltranza suggerita dall’on. Di Battista.

Nel centro-destra la vera partita si gioca nella Lega e ancora una volta il discrimine è il rapporto con l’Europa: la bocciatura di Mario Draghi, europeista-doc, metterebbe l’Italia nell’angolo rispetto a Bruxelles e all’alleanza occidentale; la Lega, come il M5S, è chiamata a un salto di qualità verso le scelte elettorali del 2018 perché l’esperienza dell’alleanza populista è storicamente finita.

Va infine sottolineata, ancora una volta, la correttezza istituzionale e la linea super-partes del presidente Mattarella: non ha dato l’incarico per il Conte-ter perché aveva capito che quella esperienza politica era finita, nonostante lo chiedesse il Pd; oggi gioca il suo prestigio per evitare che il Paese finisca nella paralisi istituzionale.