Se chiediamo qual è l’animale a cui si vorrebbe somigliare, molti bambini di ieri, così come molti bambini di oggi, rispondono senza esitazione “Al cavallo!”: perché il cavallo da sempre porta in sé quegli ideali di forza e di libertà che tutti desiderano.

Il cavallo non lo immaginiamo mai statico, fermo in un recinto, lo pensiamo correre su prati o in riva a mare, con i muscoli tesi e la criniera al vento.
Negli occhi ci appare Pegaso, il cavallo alato, come anche ci appare il centauro, metà uomo metà cavallo, che racchiude in sè pregi e difetti dell’uomo e dell’animale ma che, come Chirone, ha la capacità di sopportare e di resistere al dolore.

Poi ci sono tutti i cavalli che abbiamo visto nei film western; c’è “Cavallo Pazzo”, il capo indiano che ha rappresentato l’orgoglio di un popolo che veniva sconfitto; e poi c’è Furia, lo stallone nero della serie televisiva, che negli anni Settanta divenne ancora più famoso grazie alla famosissima sigla cantata da Mal.
Con Furia, prima di sapere che già Ippocrate utilizzava il cavallo a fini terapeutici, l’accento era sul cavallo selvaggio che viene domato da un piccolo orfanello e che diventa sinonimo di cura, affetto e protezione. Questi sono proprio gli elementi che rendono il cavallo capace di “curare” l’essere umano. Inizialmente gli adulti (leggiamo di trattamenti rivolti a riabilitare soldati, per esempio), ma poi sono sempre più frequentemente bambini, con disabilità, con difficoltà relazionali o comportamentali.

Oggi non ci sorprendono i termini di ippoterapia o di riabilitazione equestre e sappiamo quanto quell’animale così grande, così forte, che è sempre capace di incutere rispetto in chi lo guarda, possa diventare il confidente, l’amico più stretto di chi si affida a lui.
Andare a cavallo è diventare parte dell’animale, che si monti all’inglese, con la sella americana o “a pelo” fa sentire tutti in una connessione senza pari con un altro essere vivente. La sintonia e la sincronia a cui si deve arrivare per far si che quei due corpi si muovano fluidamente è fonte di impegno sia per il cavallo sia per il cavaliere, perché se da una parte “si sente”, dall’altra si impara.
Andare a cavallo per curarsi però significa soprattutto prendersi cura dell’animale, rispettarlo nella sua personalità, mettersi in dialogo con chi, attraverso quegli occhi grandi e le vibrazioni del corpo, ti guida verso ciò che reputa gradevole o meno.
Andare a cavallo diventa dunque fonte di continuo scambio, di una richiesta reciproca, di un mettersi in sintonia, di collegarsi a livelli diversi e molto profondi.
Solo attraverso questa educazione, alla cura reciproca, il cavallo e il suo cavaliere si permettono di creare una sintonia che rilassa entrambi, che permette quello straordinario scambio di energia positiva.

Nella terapia con l’uso degli animali, non è importante solo il saper condurre l’animale, che va ad aumentare sicuramente l’autostima: per chi di sente fragile o debole, per chi viene di solito accudito in tutto e per tutto, o che viene giudicato incapace di autonomia, il vedersi issare su un grande animale e poter tenere le redini in mano per i comandi è sicuramente fonte di grande soddisfazione e piacere; ma è un parlarsi, un sussurrarsi reciproco sulle proprie emozioni.
Questo dialogo, questa armonia, è ciò che permette di stabilire una fiducia senza uguali, quella stessa che permette a bambini in difficoltà di poter lasciare spazio ad altre emozioni diverse dalle paure, quello che permette ai muscoli di distendersi e di avviarsi verso movimenti mai sperimentati, di raggiungere velocità o di provare quella meravigliosa sensazione di aria sul viso e tra i capelli, caschetto permettendo!

Cristina Terribili, psicologa-psicoterapeuta