Gli era tornata la voglia di disegnare, di riprendere il suo talento nel saper ritrarre volti e persone, ambienti e situazioni, delineandone anche i caratteri e illustrandone gli aspetti più importanti in maniera incisiva. Aveva smesso di farlo perché la malattia aveva indebolito le mani e, forse, anche la mente, che non riusciva ad andare al profondo di quello che gli capitava, fino a dettargli un’immagine. L’ultimo ritratto che aveva fatto era quello del parroco che aveva sostituito 5 anni prima, apprezzato anche dall’amico sacerdote.

Mentre indossava i paramenti liturgici viola, era stato invaso da una strana allegria. Non gli era mai capitato che, apprestandosi a celebrare un funerale gli venisse voglia di ridere. Pareva fuori luogo, eppure sapeva che era giusto.

Ernesto era un uomo pieno di vita e soprattutto di sorriso. Era difficile incontrarlo senza che trasmettesse l’allegria che lo rendeva speciale. Era un gusto che trovava soprattutto quando andava nei boschi a caccia, a sperimentare, in solitudine, il silenzio che gli permetteva di “aprire l’orecchio del cuore”.

Dopo aver ricevuto l’olio degli infermi, Ernesto si era rivolto ai figli, Juri e Giulio, benedicendoli: “Grazie ragazzi!”. Come Giacobbe che benedisse i 12 figli, uno per uno, dipingendo la loro personalità con poche, efficaci e appropriate parole. Ma poi, poche ore dopo la morte, recandosi dai familiari per le condoglianze, aveva trovato i tanti nipoti, piccolini o più grandicelli, che preparavano un bigliettino di saluto al nonno, ciascuno il proprio. C’era chi riusciva solo a scarabocchiare un “Ciao” o un “Grazie nonno” e chi, invece, disegnava un volto sorridente, con i capelli biondi, quelli di Ernesto da giovane.

Ora quei disegni ornavano la bara, insieme ai fiori profumati, e spandevano nel cuore del sacerdote una grande gioia, che vedeva specchiata nella composta serenità dei familiari e soprattutto dei bambini. Non c’era più il terrore della morte, ma la voglia di accompagnare Ernesto nell’ultima passeggiata nei suoi boschi.

“Quanta verità può sopportare un essere umano? Quanta verità può osare un essere umano?”. Questa tremenda domanda portò Nietzsche alla follia. Invece, la Verità fatta carne, aveva dato al semplice parroco di campagna una letizia infinita. E la voglia di tornare a disegnare, come quei bambini, che benedicevano nonno Ernesto.