(Cristina Terribili)

Ci sono dei cambiamenti nell’aria. Se apriamo gli occhi su ciò che ci propone il mondo che ci circonda, ciò che ci trasmettono il cinema, la televisione (benché se ne veda sempre di meno), il teatro, gli articoli di giornali e riviste, se ascoltiamo le persone, notiamo una ritrovata volontà di consapevolezza: il bisogno di riavvolgere un nastro e di capire come mai le cose sono andate in un certo modo nel nostro cammino. Se da una parte ci sono i supereroi con le loro abilità (che diventano comunque sempre più umane), dall’altra si va verso un nuovo neorealismo, verso la voglia di raccontare cosa è accaduto ad una generazione, per riflettere su dove siamo ora e per provare a darsi delle risposte che non arriveranno mai dall’esterno.

Zerocalcare, il fumettista romano autore di una nuova, acclamatissima, serie televisiva, racconta della generazione nata tra gli anni ‘80 e ‘90, di chi è rimasto stretto tra i cambiamenti politici e sociali che hanno segnato il mondo (nel 1989 cade il muro di Berlino, è l’anno delle proteste di piazza Tienanmen, ma anche l’anno in cui esce il Game Boy o viene trasmesso il primo episodio de “I Simpson”, o dove al cinema, Robin Williams, interpreta il Professore John Keating ne “L’attimo fuggente”).

Tra speranze per un mondo nuovo e la precarietà del futuro si muovono tanti giovani nati in quegli anni, rappresentati, nelle loro diverse unicità, nella serie “Strappare lungo i bordi”, in cui si riconosce chi, spinto da un forte senso di autocritica, sente su di sé responsabilità che lo paralizzano, chi cerca di portare avanti i propri sogni all’interno di un lavoro o di un contesto dove poterli realizzare; e c’è chi, di fronte a tutto questo, vede e sente tutto, ma decide di rifugiarsi in uno stato alterato di coscienza. Viene anche rappresentato chi prova ad uscire dalla provincia per immergersi in una grande città, per partecipare a qualcosa di più grande, di diverso, ma che, spesso, richiede un costo alto per sopravvivere.

E così questa serie diventa intima, diventa lo specchio di giovani (perché a quarant’anni si è giovani), ma parla anche della generazione successiva che forse, consapevole delle difficoltà che poteva incontrare, ha inquadrato immediatamente una strada da intraprendere. E così, alcuni tra i bambini degli anni ‘80 si ritrovano, da grandi, come in uno dei film citati nella serie “L’odio” che inizia con “questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio, si ripete: ‘fin qui tutto bene’. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”.

Il neorealismo però, non ci parla solo di cose passate, ma vuole favorire una presa di coscienza per qualcosa che potrebbe avvenire dopo. Potremmo dire che chiarisce le premesse di un futuro che è tutto da costruire.

Se potessimo prendere spunto da quello che ci circonda potremmo forse approfondire un pensiero su noi stessi, cogliere l’occasione per chiederci noi in quella storia chi siamo, dove siamo, che cosa stavamo facendo e che cosa facciamo ora. Se superassimo le polemiche sterili sul dialetto o sulle città ma ci concentrassimo sui contenuti, potremmo capire se stiamo strappando lungo i bordi e se la figura che vediamo emergere ci rappresenta o meno, se stiamo raggiungendo i nostri obiettivi o se, per la paura di accogliere le novità che la vita ci propone, rimaniamo fermi o voltiamo il nostro sguardo altrove. Perché, alla fine della fiera, potremmo decidere che qualche frustrazione la possiamo anche accettare, che non necessariamente l’egoismo e la chiusura sono le risposte che tutelano meglio il nostro essere.

E oggi, per quello che stiamo vivendo, questa consapevolezza diventa oltremodo necessaria.